La guerra rimane la più grande sconfitta del genere umano, un male rimasto irrisolto. La ricerca scientifica indica delle strade, ma la prevenzione culturale e militare rappresentano ancora le opzioni migliori per evitare i conflitti
di Guido Talarico
La scienza più aiutare a capire le ragioni che portano l’umanità a continue guerre? I conflitti in corso, almeno quelli a noi più vicini e dunque più noti, Ucraina e Gaza per intenderci, si combattono nell’interesse di chi? Leggendo le cronache dei due conflitti e andando a ricercare le ragioni più profonde che portano agli orrori cui assistiamo dalla comodità delle nostre case non otteniamo indicazioni chiare. Dalla scienza invece arriva qualche suggestione, qualche barlume di verità sui quali soffermarsi. Partiamo da un esempio celebre. Il carteggio del 1932 tra Albert Einstein e Sigmund Freud, intitolato “Perché la guerra?” (che riportiamo integralmente alla fine di questo articolo) testimonia la complessità del rapporto tra l’uomo e la guerra. Allo stesso tempo invita a riflettere sui condizionamenti esterni che portano ai conflitti e a una diversa visione della cultura della difesa.
Partiamo da quel carteggio che nasceva dalla richiesta della Società delle Nazioni fatta ad Einstein di invitare una persona “di gradimento” a un “franco scambio d’opinioni” su un tema rilevante. Einstein scelse Freud ponendogli questa domanda: “C’è un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra?”. Quello scambio epistolare, pur coinvolgendo due geni, non offre una risposta esaustiva al quesito ma, come accennavamo, indica un percorso chiaro. E questo percorso in qualche modo incarna la vita dei due scienziati e l’evoluzione della ricerca scientifica.
Il padre della psicanalisi scrive ad Einstein “Perché ci indigniamo tanto contro la guerra. Perché non la prendiamo come una delle molte e penose calamità della vita? La guerra sembra conforme alla natura, pienamente giustificata biologicamente, in pratica assai poco evitabile. Non inorridisca perché pongo la domanda. Al fine di compiere un’indagine come questa è forse lecito fingere un distacco di cui in realtà non si dispone. La risposta è: perché ogni uomo ha diritto alla propria vita, perché la guerra annienta vite umane piene di promesse, pone i singoli individui in condizioni che li disonorano, li costringe, contro la propria volontà, a uccidere altri individui, distrugge preziosi valori materiali, prodotto del lavoro umano, e altre cose ancora”.
Einstein dal canto suo rimane alla scienza: “perché l’uomo – scrive il fisico padre della teoria della relatività – ha dentro di sé il piacere di odiare e di distruggere. In tempi normali la sua passione rimane latente, emerge solo in circostanze eccezionali; ma è abbastanza facile attizzarla e portarla alle altezze di una psicosi collettiva. Qui, forse, è il nocciolo del complesso di fattori che cerchiamo di districare, un enigma che può essere risolto solo da chi è esperto nella conoscenza degli istinti umani”.
I due scienziati, come è inevitabile, mettono l’uomo al centro dei ragionamenti. E qui, restando proprio alle loro indicazioni, e per venire ai nostri giorni, apriamo una parentesi sulla fisica quantistica. Parliamo della Teoria delle stringhe, una ricerca che si basa su due pilastri della fisica del XX secolo: la relatività generale di Einstein e la meccanica quantistica. La relatività generale afferma che lo spazio e il tempo sono interconnessi e che oggetti massicci deformano lo spazio-tempo. La meccanica quantistica, dal canto suo, sempre indagando sulle dinamiche dell’universo, introduce invece l’idea di casualità su scale microscopiche.
Ecco, la casualità è un elemento da tenere bene in mente nella valutazione delle dinamiche umane. La vita e la morte sono gli appuntamenti più importanti di ciascuna esistenza eppure sono del tutto casuali. E cosi potremmo dire di altri mille eventi che segnano la vita di ciascun membro del genere umano. E allora la domanda è spontanea: quanto influisce il caso sui nostri comportamenti? E soprattutto le nostre scelte più inconfessabili o più inspiegabili da cosa dipendono?
Torniamo per un attimo a Freud: “Noi presumiamo che le pulsioni dell’uomo siano soltanto di due specie, quelle che tendono a conservare e a unire – da noi chiamate sia erotiche (esattamente nel senso di Eros nel Convivio di Platone) sia sessuali, estendendo intenzionalmente il concetto popolare di sessualità, – e quelle che tendono a distruggere e a uccidere; queste ultime le comprendiamo tutte nella denominazione di pulsione aggressiva o distruttiva”. Una fotografia nitida che porta ad altre domande: chi o cosa stabilisce quali pulsioni fare prevalere? È il caso che governa le scelte più aberranti compiute dal genere umano?
Una delle ipotesi più sorprendenti della Teoria delle stringhe, formulata da Richard Feynman, è che lo spazio-tempo abbia dieci dimensioni anziché quattro. Sei dimensioni aggiuntive – spiegano gli esperti – potrebbero essere nascoste e influenzare il nostro mondo in modi sottili. Queste dimensioni possono essere indagate attraverso esperimenti che cercano tracce delle extra-dimensioni nelle radiazioni cosmiche o nelle forze gravitazionali a brevi distanze. Temi e suggestioni che un film come “Interstellar”, di Christopher Nolan, ha ben rappresentato.
Ci fermiamo qui. Rileggere il carteggio tra Einstein e Freud, che vi caldeggiamo, vi aiuterà a comprendere meglio perché proprio Einstein parlava di “impotenza” di chi nella sua epoca aveva la responsabilità di affrontare il tema della guerra. Ciò che qui ci interessava sottolineare è proprio il rapporto tra fenomeni fisici, di cui ancora non conosciamo le caratteristiche, e la suggestione freudiana sui condizionamenti e sulla casualità del male di cui è ancora vittima il genere umano.
In attesa dunque che la scienza faccia la sua strada e ci illumini spiegando le regole che disciplinano l’universo e condizionano certe scelte umane – un’attesa che immaginiamo ancora lunga – non possiamo non ricordare che la guerra rimane la più grande sconfitta del genere umano, un fallimento irrisolto, la prova di una incapacità drammatica. Ma soprattutto non possiamo non tornare a pensare alla “cultura della difesa” come l’unico strumento capace di garantire la pace.
Cito ancora Einstein, “un nuovo tipo di pensiero è essenziale se l’umanità vuole sopravvivere. Il pensiero e i metodi passati non hanno impedito le guerre mondiali. Il pensiero futuro deve prevenire le guerre”. Ecco, oggi la parola chiave rimane prevenzione. Ed è da usare in tutti i suoi ambiti. Prevenzione culturale, prevenzione psicologica e prevenzione militare. Occorre alzare barriere difensive per prevenire qualsiasi tentazione bellica. Il nucleare del resto – piaccia o no – è una delle più inconfutabili prove di come la difesa militare rimanga il maggiore strumento di pace. In attesa dunque di scoprire cosa impedisca all’uomo di darsi una regola e una forza globale capace di impedire i conflitti, non possiamo fare altro che rafforzare la comune forza d’interdizione.
Il che significa avere cultura a sufficienza per capire da che parte, al di là di ogni propaganda, sta veramente la ragione e, senza ipocrisie, armi per difendere sé stessi e i principi della pace, quelli che la nostra Costituzione ricorda nell’art. 11. Ma non solo. Serve anche quella componente emotiva che forse sta nelle stringhe ma che certamente sta nell’animo umano. Brad, la cosmonauta di Interstellar interpretata da Anne Hathaway, lo spiega bene: “forse l’amore è un artefatto di un’altra dimensione che non possiamo percepire consciamente… è l’unica cosa che possiamo percepire che trascende le dimensioni di spazio e tempo. Forse di questo dovremmo fidarci anche se non riusciamo a capirlo ancora”.
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Istituto Italiano per gli Studi Filosofici
PERCHÈ LA GUERRA? Carteggio Albert Einstein – Sigmund Freud |
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Caro signor Freud, La proposta, fattami dalla Società delle Nazioni e dal suo “Istituto internazionale di cooperazione intellettuale” di Parigi, di invitare una persona di mio gradimento a un franco scambio d’opinioni su un problema qualsiasi da me scelto, mi offre la gradita occasione di dialogare con Lei circa una domanda che appare, nella presente condizione del mondo, la più urgente fra tutte quelle che si pongono alla civiltà. La domanda è: C’è un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra? E’: ormai risaputo che, col progredire della scienza moderna, rispondere a questa domanda è divenuto una questione di vita o di morte per la civiltà da noi conosciuta, eppure, nonostante tutta la buona volontà, nessun tentativo di soluzione è purtroppo approdato a qualcosa. Penso anche che coloro cui spetta affrontare il problema professionalmente e praticamente divengano di giorno in giorno più consapevoli della loro impotenza in proposito, e abbiano oggi un vivo desiderio di conoscere le opinioni di persone assorbite dalla ricerca scientifica, le quali per ciò stesso siano in grado di osservare i problemi del mondo con sufficiente distacco. Quanto a me, l’obiettivo cui si rivolge abitualmente il mio pensiero non m’aiuta a discernere gli oscuri recessi della volontà e del sentimento umano. Pertanto, riguardo a tale inchiesta, dovrò limitarmi a cercare di porre il problema nei giusti termini, consentendoLe così, su un terreno sbarazzato dalle soluzioni più ovvie, di avvalersi della Sua vasta conoscenza della vita istintiva umana per far qualche luce sul problema. Vi sono determinati ostacoli psicologici di cui chi non conosce le scienze mentali ha un vago sentore, e di cui tuttavia non riesce a esplorare le correlazioni e i confini; sono convinto che Lei potrà suggerire metodi educativi, più o meno estranei all’ambito politico, che elimineranno questi ostacoli. Essendo immune da sentimenti nazionalistici, vedo personalmente una maniera semplice di affrontare l’aspetto esteriore, cioè organizzativo, del problema: gli Stati creino un’autorità legislativa e giudiziaria col mandato di comporre tutti i conflitti che sorgano tra loro. Ogni Stato si assuma l’obbligo di rispettare i decreti di questa autorità, di invocarne la decisione in ogni disputa, di accettarne senza riserve il giudizio e di attuare tutti i provvedimenti che essa ritenesse necessari per far applicare le proprie ingiunzioni. Qui s’incontra la prima difficoltà: un tribunale è un’istituzione umana che, quanto meno è in grado di far rispettare le proprie decisioni, tanto più soccombe alle pressioni stragiudiziali. Vi è qui una realtà da cui non possiamo prescindere: diritto e forza sono inscindibili, e le decisioni del diritto s’avvicinano alla giustizia, cui aspira quella comunità nel cui nome e interesse vengono pronunciate le sentenze, solo nella misura in cui tale comunità ha il potere effettivo di impone il rispetto del proprio ideale legalitario. Oggi siamo però lontanissimi dal possedere una organizzazione sovrannazionale che possa emettere verdetti di autorità incontestata e imporre con la forza di sottomettersi all’esecuzione delle sue sentenze. Giungo così al mio primo assioma: la ricerca della sicurezza internazionale implica che ogni Stato rinunci incondizionatamente a una parte della sua libertà d’azione, vale a dire alla sua sovranità, ed è assolutamente chiaro che non v’è altra strada per arrivare a siffatta sicurezza. L’insuccesso, nonostante tutto, dei tentativi intesi nell’ultimo decennio a realizzare questa meta ci fa concludere senz’ombra di dubbio che qui operano forti fattori psicologici che paralizzano gli sforzi. Alcuni di questi fattori sono evidenti. La sete di potere della classe dominante è in ogni Stato contraria a qualsiasi limitazione della sovranità nazionale. Questo smodato desiderio di potere politico si accorda con le mire di chi cerca solo vantaggi mercenari, economici. Penso soprattutto al piccolo ma deciso gruppo di coloro che, attivi in ogni Stato e incuranti di ogni considerazione e restrizione sociale, vedono nella guerra, cioè nella fabbricazione e vendita di armi, soltanto un occasione per promuovere i loro interessi personali e ampliare la loro personale autorità. Tuttavia l’aver riconosciuto questo dato inoppugnabile ci ha soltanto fatto fare il primo passo per capire come stiano oggi le cose. Ci troviamo subito di fronte a un’altra domanda: com’è possibile che la minoranza ora menzionata riesca ad asservire alle proprie cupidigie la massa del popolo, che da una guerra ha solo da soffrire e da perdere? (Parlando della maggioranza non escludo i soldati, di ogni grado, che hanno scelto la guerra come loro professione convinti di giovare alla difesa dei più alti interessi della loro stirpe e che l’attacco è spesso il miglior metodo di difesa.) Una risposta ovvia a questa domanda sarebbe che la minoranza di quelli che di volta in volta sono a1 potere ha in mano prima di tutto la scuola e la stampa, e perlopiù anche le organizzazioni religiose. Ciò le consente di organizzare e sviare i sentimenti delle masse rendendoli strumenti della propria politica. Pure, questa risposta non dà neanch’essa una soluzione completa e fa sorgere una ulteriore domanda: com’è possibile che la massa si lasci infiammare con i mezzi suddetti fino al furore e all’olocausto di sé? Una sola risposta si impone: perché l’uomo ha dentro di sé il piacere di odiare e di distruggere. In tempi normali la sua passione rimane latente, emerge solo in circostanze eccezionali; ma è abbastanza facile attizzarla e portarla alle altezze di una psicosi collettiva. Qui, forse, è il nocciolo del complesso di fattori che cerchiamo di districare, un enigma che può essere risolto solo da chi è esperto nella conoscenza degli istinti umani. Arriviamo così all’ultima domanda. Vi è una possibilità di dirigere l’evoluzione psichica degli uomini in modo che diventino capaci di resistere alle psicosi dell’odio e della distruzione? Non penso qui affatto solo alle cosiddette masse incolte. L’esperienza prova che piuttosto la cosiddetta “intellighenzia” cede per prima a queste rovinose suggestioni collettive, poiché l’intellettuale non ha contatto diretto con la rozza realtà, ma la vive attraverso la sua forma riassuntiva più facile, quella della pagina stampata. Concludendo: ho parlato sinora soltanto di guerre tra Stati, ossia di conflitti internazionali. Ma sono perfettamente consapevole del fatto che l’istinto aggressivo opera anche in altre forme e in altre circostanze (penso alle guerre civili, per esempio, dovute un tempo al fanatismo religioso, oggi a fattori sociali; o, ancora, alla persecuzione di minoranze razziali). Ma la mia insistenza sulla forma più tipica, crudele e pazza di conflitto tra uomo e uomo era voluta, perché abbiamo qui l’occasione migliore per scoprire i mezzi e le maniere mediante i quali rendere impossibili tutti i conflitti armati. So che nei Suoi scritti possiamo trovare risposte esplicite o implicite a tutti gli interrogativi posti da questo problema che è insieme urgente e imprescindibile. Sarebbe tuttavia della massima utilità a noi tutti se Lei esponesse il problema della pace mondiale alla luce delle Sue recenti scoperte, perché tale esposizione potrebbe indicare la strada a nuovi e validissimi modi d’azione. Molto cordialmente Suo Albert Einstein |
La risposta di Freud
Caro signor Einstein, tale natura. Le modificazioni psichiche che intervengono con l’incivilimento sono invece vistose e per nulla equivoche. Esse consistono in uno spostamento progressivo delle mete pulsiona!i. Sensazioni che per i nostri progenitori erano cariche di piacere, sono diventate per noi indifferenti o addirittura intollerabili; esistono fondamenti organici del fatto che le nostre esigenze ideali, sia etiche che estetiche, sono mutate. Dei caratteri psicologici della civiltà, due sembrano i più importanti: il rafforzamento dell’intelletto, che comincia a dominare la vita pulsionale, e l’interiorizzazione dell’aggressività, con tutti i vantaggi e i pericoli che ne conseguono. Orbene, poiché la guerra contraddice nel modo più stridente a tutto l’atteggiamento psichico che ci è imposto dal processo civile, dobbiamo necessariamente ribellarci contro di essa: semplicemente non la sopportiamo più; non si tratta soltanto di un rifiuto intellettuale e affettivo, per noi pacifisti si tratta di un’intolleranza costituzionale, per così dire della massima idiosincrasia. E mi sembra che le degradazioni estetiche della guerra non abbiano nel nostro rifiuto una parte molto minore delle sue crudeltà. |
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